L'esperienza di Martina Berretti
09/12/2013
Giunta alla fine di questa bellissima esperienza, vorrei lasciare un ricordo ed un ringraziamento a questa terra e alla sua gente che in maniera ineccepibile mi ha accompagnato, guidato e molto spesso supportato durante il corso del mio soggiorno. Ho trascorso qua a Bonoua in Costa d’Avorio, cinque settimane ed ho vissuto ogni giorno con le persone del posto condividendo le loro gioie, i loro dolori ed i loro usi e costumi, allo stesso modo hanno fatto loro con me. Le differenze che ci separano sono veramente tante ma sono proprio le stesse anche ad avvicinarci: è la curiosità di scoprirsi e di conoscersi che spinge gli uni verso gli altri e viceversa. Ho trovato tanta cordialità ed apertura ad interagire che hanno sicuramente facilitato il mio inserimento nel loro contesto sociale, altrettanto spero di aver fatto io, nel mio piccolo, apportando certe note positive anche se totalmente sconosciute nella loro quotidianità.
Vorrei fare un piccolo appunto ed una breve descrizione sul lavoro che ho svolto qua, che, se pur minimo a causa delle difficoltà di comprensione della lingua e della mia ignoranza in campo medico, mi ha fatto comunque sentire un “gigante”, una persona in grado a suo modo di aiutare qualcun altro e questa, credetemi, è stata la soddisfazione più grande che potessi aspettarmi; mi sono resa conto che qui, tutto ciò che puoi fare, qualsiasi cosa, anche la più piccola o la meno dispendiosa dal punto di vista economico o energetico, può avere un effetto benevolo su qualcuno, basta un sorriso, un saluto con la mano o una caramella a riaccendere un sorriso e a far tornare la speranza in qualcosa di migliore. Nello specifico, spiego meglio in cosa è consistito il lavoro che abbiamo fatto: esiste ormai da anni, come sicuramente molti di voi sapranno, un progetto chiamato “Ippocrate” , pensato e fortemente voluto dal presidente dell’associazione che prevede un presidio medico con tanto di consultazioni e fornitura di medicinali nei villaggi lontani da i “centri”, posti bellissimi, immersi nel verde della natura incontaminata delle grandi piantagioni e della laguna che però, proprio a causa della loro distanza, sono tagliati fuori da tutto. Qui la gente vive nelle vere capanne di fango senza luce né acqua, in condizioni igienico-sanitarie al limite del possibile ed è proprio per far fronte a certi disagi che costantemente, con cadenza regolare di circa una volta a settimana, il pickup della “mission catholique” raggiunge i vari villaggi e le infermiere, spesso con l’aiuto di una persona del posto che traduce il francese nel dialetto del villaggio in questione, si dedicano i malati: da i neonati per le prime visite, a gli anziani con problemi di pressione, da persone affette da paludisme (malaria) con febbre altissima o dal virus HIV che purtroppo è ancora molto diffuso in questo paese, ad altre con profonde ferite provocate da macheti o altri utensili simili oppure piaghe di varia natura. Il mio compito è stato semplicemente quello di aiutare, qualsiasi cosa ci fosse da fare, a volte anche cimentarsi in cose mai fatte prima o addirittura viste solo in tv, accompagnata dalla paura costante di sbagliare o peggio ancora di fare male a qualcuno, eppure è andato sempre tutto bene ed ogni sera tornavo nella mia stanza più felice e soddisfatta del giorno prima. Sicuramente il tutto è stato facilitato da i miei compagni di viaggio a cui rivolgo un ringraziamento personale perché sono convinta che senza di loro, l’esperienza non sarebbe stata la stessa, un ringraziamento speciale va all’associazione Solidarietà Missionaria di Borgo San Lorenzo, alla Mission Catholique di Bonoua e a tutte le persone che ne fanno parte e che ci hanno ospitato e accudito con tutte le migliori attenzioni del caso, infine ringrazio tutto il paese di Bonoua e tutti i suoi abitanti che nel corso del mio soggiorno, ho avuto modo di incontrare e conoscere nelle occasioni più disparate: i commessi del supermercato “Bonprix”, i ragazzi alla pompa di benzina, le donne del maquis dove spesso ci fermavamo a mangiare un poulet braisé (pollo alla brace) o a bere una “birretta” e molti altri…
Voglio concludere con un auspicio che rivolgo a me stessa e che a gli occhi di molti potrebbe apparire come una frase fatta o banale dopo un’esperienza del genere ma mi auguro fortemente di riuscire a far tesoro di tutto ciò che ho visto e vissuto in questo periodo e modificare quindi, la prospettiva da cui fin’ora ho guardato il mondo perché è proprio questo che credo di aver imparato in Africa: dare il giusto valore alle cose.
Martina
09/12/2013
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